Intervista a Paolo Massobrio, autore del libro che racconta come nella vita conti lo sguardo e le relazioni ne costruiscano il senso.
Sguardo. O prospettiva. Quel punto di vista con cui ognuno di noi si approccia agli accadimenti della propria esistenza e ne diventa il regista, trasformando – talvolta – le difficoltà in occasioni e la realtà in opportunità. È questo che ha pensato Paolo Massobrio, giornalista e critico con oltre trent’anni di esperienza nel mondo dell’enogastronomia, scrivendo “Del bicchiere mezzo pieno” (Comunica Edizioni – € 18), un vaso di Pandora che raccoglie in 50 ritratti le storie e gli aneddoti legati ad altrettanti personaggi incontrati dall’autore nel corso della sua carriera. Persone, uomini e donne con estrazioni e background differenti, che hanno saputo cambiare la propria strada grazie al loro sguardo positivo sulla vita e sul proprio lavoro.
Ogni incontro narrato, spogliato di ogni ufficialità, diventa così lo spunto per lanciare una provocazione, dimostrando che, alla fine, il bicchiere appare sempre mezzo pieno. Iconica, in questo senso, è la carpa koi mutuata dalla cultura giapponese e utilizzata in copertina come simbolo della volontà di concretizzare gli obiettivi. “Il suo esempio – dice anche Tomas Navarro in Wasi Sabi – spinge gli uomini a coltivare valori come la pazienza, la forza, il coraggio, la capacità di mostrarsi resilienti e di superare gli ostacoli”.
Paolo, come è nata l’idea di questo libro?
Dal periodo strano in cui ci siamo trovati rinchiusi, dove c’era bisogno in qualche modo di relazioni. E siccome queste non si potevano vivere in presenza, durante il primo lockdown, sono andato a cercare quelle persone che nella vita hanno avuto o hanno uno sguardo di vittoria, capace di affrontare le difficoltà della vita e del lavoro.
Personaggi di umanità varia, con storie e percorsi talvolta estremamente diversi tra loro. Qual è il filo rosso che li lega?
La capacità di guardare oltre. Sono situazioni incredibili, di gente con cui sono entrato in rapporto, con una certa profondità e simpatia umana e che mi hanno sorpreso perché sono riusciti ad andare oltre quella che poteva essere la mia misura di pensiero. Infatti la carpa Koj ha anche un sole col colore del vino che la sovrasta e che rappresenta questa sorpresa di superare tutto, anche l’immaginazione. E lo dico pensando a Francesca, che ha superato una malattia grave mettendo le mani in pasta, letteralmente, o a Franca, che s’è trovata in una casa di riposo durante il Covid e ha trovato una risposta al suo senso di impotenza, ma anche a Gianni Rigoni Stern, che ha fatto più di 50 viaggi in Bosnia per riscostruire la realtà agropastorale dopo l’eccidio di Srebrenica.
Il mondo del vino occupa una parte importante del suo libro. Quali sono gli incontri che l’hanno maggiormente segnata, spingendola a cambiare prospettiva?
Il primo non può che essere Luigi Veronelli, il maestro di tanti che scrivono di cibo e vino, con cui ho avuto un rapporto dialettico ma vero, che mi ha fatto crescere. Ma anche Jean Valenti tessera n.1 dell’Ais che ha vissuto quasi un secolo e il vino è stata la sua chiave di svolta. Poi Serge Hochar, che in Libano produceva il vino come segno di pace. Emidio Pepe che pigia ancora le uve con i piedi o Giampiero Bea che mette il rispetto di suo padre Paolo al primo posto.
Angelo Gaja occupa una parte importante perché quest’anno, che ha compiuto 80 anni, mi ha fatto capire cosa significa passare il testimone ai figli. All’inizio del libro c’è ovviamente Giacomo Bologna da Rocchetta Tanaro, che mi ha fatto vivere, ogni volta che andavo a casa sua, il Pranzo di Babette insieme a quella che sarebbe diventata la “squadra del vino italiano” alla conquista del mondo. Poi storie incredibili di innovazione, tutte e tre in Toscana: Antonella Manuli con la sua vite libera in Maremma; Pasquale Forte a Rocca d’Orcia per fare il vino più buono del mondo, proprio di fronte a Montalcino, e infine Stefano Casadei che, come Josko Gravner, crede nell’anfora. Ma un capitolo cui tengo molto è anche quello dedicato a Gianfranco Soldera che adesso è in Paradiso e tra le pagine spiego anche perché.
Qual è il suo “sguardo”, cosa riempie veramente la vita?
Il mio sguardo è quello di uno che è stato guardato con un forte senso di amicizia e questo ha cambiato anche il mio di sguardo, per cui un cuoco, un produttore di vino, un artigiano, un giornalista non è definito dal suo successo o dalla sua bravura, punto e basta. È molto altro, perché ogni vita è un vaso di pandora ricca di umanità, di ciò che desideriamo ricevere. E ciascuno di loro mi ha spiegato cosa riempie la vita veramente. E non è mai il successo, che finisce ed è effimero.
Nell’ultima pagina dedicata agli amici, cito la frase di un salmo che recita: “Cosa sarai mai l’uomo perché te ne ricordi?” e di chi ti ricordi? Di chi ha messo un seme buono, di chi ti ha riempito il bicchiere ed era mezzo pieno, ossia foriero di desiderio. La vita la riempie il suo significato, che possiamo cercare a tentoni, per sempre, ma soprattutto giorno per giorno, scoprendola in una persona, ma anche dentro al gusto delle cose.
Un aneddoto, una frase, una situazione legata a uno dei personaggi del vino raccontato nel libro…
Il libro è davvero tutto un insieme di colpi di scena e anche di aneddoti divertenti, essendoci poi personaggi come Giacomo Poretti, Bruno Lauzi, Tony Hendra, autore dei Blues Brothers o Antonio Ricci, papà di Striscia la Notizia. Ma quello che più mi ha fatto tenerezza è il racconto di Maga Lino, il produttore del Barbacarlo a Broni, che un giorno riceve nella sua bottega una persona chiaramente indigente che gli chiede la bottiglia più preziosa che ha ed è disposto, per quella, a dargli tutto ciò che possiede. Al che Maga prende il suo Barbacarlo del 1961 (prima annata di produzione) e gliela porge, mentre quel signore apre il portafoglio e dentro ci sono appena pochi spiccioli. A quel punto Maga Lino (vuol farsi chiamare così, prima col cognome) gli mette la bottiglia in mano e gli dice: “Va là che sei Gesù Cristo tu!”.