Ave, Caesar, influencer te salutant

di Daniele Becchi

Tirati loro malgrado nell’arena, gli influencer dividono il pubblico tra chi ne vorrebbe una rapida dipartita e chi li vede come paladini di un mondo del vino più democratico.

Sulle pagine di wine-searcher.com ha preso vita nei giorni passati una vivace discussione attorno al ruolo degli influencer nel wine business. A lanciare la pietra è stato James Lawrence in un lungo editoriale dal titolo “The incurable plague of wine influencers”, nel quale ha attaccato senza mezzi termini ‘i membri di questa specie’, arrivando a scomodare anche alcuni dei più grandi criminali della storia recente, come Joseph Stalin e i Khmer Rossi cambogiani (dai tempi del maccartismo ad oggi il comunismo rimane il grande spettro che si aggira nella cultura americana).

L’idea dalla quale l’autore muove è che il lavoro svolto da questi ‘professional narcissists’, sia più utile a sé stessi che non alla wine industry, alla quale apporterebbero just ‘a little value’. Un settore impregnato di falsità, per il quale Lawrence intravede, forse, il declino affacciarsi all’orizzonte. Dopo non aver risparmiato ampie critiche anche ai social media, considerati ‘a trove stuffed full of self-promotional drivel, selfies and revenge porn’, l’autore chiude ricordando quanto sia difficile l’affermazione di un prodotto utilizzando semplicemente la comunicazione. A riprova di ciò gli inutili sforzi fatti da due personaggi del calibro di Tim Atkin MW e Jancis Robinson MW a favore del Riesling. ‘Are we really suggesting that a bunch of narcissists with over-sized egos and Instagram accounts could hope to do any better?’ si interroga in conclusione Lawrence.

Questo attacco frontale ha trovato pronta risposta nel successivo articolo “What’s the Problem with Wine Influencers?”,
dove Sophia Longhi offre un punto di vista alternativo. Le sue prime critiche sono indirizzate a un certo modo di fare comunicazione che ha riversato contro alcune categorie, influencer compresi, tutta la rabbia innescata da Covid19 e crisi economica. Un tema questo molto sentito nei paesi anglo-sassoni, scossi nei mesi scorsi da ripetuti scandali di natura sessista che hanno coinvolto personaggi come Joe Fattorini e istituzioni come la Court of Master Sommelier.

Secondo l’autrice, giornalisti, autori, presentatori, blogger e influencer hanno un obiettivo comune: promuovere l’industria del vino. E, pur non negando l’evidente vanità che caratterizza alcuni di loro, non la ritiene differente da quella che contraddistingue presentatori e autori ‘tradizionali’. “It’s a job and self-promotion is part of it, but if the wine industry is getting something out of it, then the transaction is valid and valuable” afferma l’autrice.

Ma il tema centrale della sua considerazione è che, grazie ai tanto bistrattati influencer, l’industria del vino è diventata più inclusiva, aprendo le porte a due categorie fin qui lontane dalle sue dinamiche: i giovani e le donne. Riguardo ai primi i social rappresentano il mezzo ideale per raggiungere millennial e Z-Gen, alla ricerca di connessioni orizzontali in cui identificarsi. Per quanto riguarda invece le seconde, la Longhi ricorda come quella degli influencer sia la prima vera categoria a predominanza femminile, in un mondo dominato dagli uomini. “No longer are we subjected to the perspective of one demographic: white, male and posh. Because of social media, all kinds of consumers can feel represented and spoken to when it comes to wine” constata l’autrice.

La discussione è dunque aperta, tra coloro che ritengono i wine influencer come un male (non) necessario nel mondo della comunicazione enoica e altri che invece li ritengono capaci di aprire un settore molto (troppo?) tradizionale a nuove fette di consumatori.