L’enologo con la camicia che racconta il Trentino in anfora

di Giambattista Marchetto

Un passato da pallavolista, Emiliano Baroldi gestisce la storica Vineria di famiglia a Mori. E si racconta assieme ai suoi vini ironici e accattivanti.


di Giambattista Marchetto ed Elena Morganti

Un passato da atleta nelle file del Petrarca Volley, una carriera da barman nei locali notturni di mezzo mondo, e poi il rientro in Trentino nella Vineria di famiglia. Da sempre Emiliano Baroldi ha un’infatuazione per il mondo enoico e la passione è diventata sempre più importante nella sua vita. Grazie alla Vineria – affiancando ai calici prodotti gastronomici di qualità, soprattutto crudità di pesce, dalle ostriche agli scampi – ha approfondito la conoscenza del mondo enologico con ricerca e contatti, fino a decidere di conseguire la laurea in Enologia alla Fondazione Mach, continuando la mescita all’interno del locale e iniziando a produrre i suoi primi vini, appoggiandosi ad alcune cantine del Trentino.

Poche etichette, accattivanti e sornione. Alcune richiamano un mondo circense dal sapore di Belle Époque, come quella del Benedict, spumante metodo classico a base chardonnay dalle piacevoli note agrumate e minerali, con l’immagine di un panciuto personaggio che diffonde bollicine dal megafono. Oppure quella de L’Intrepido, Rosso della Vallagarina da uve cabernet e merlot, fruttato e dalla beva ‘pericolosamente’ agile, che sfida chiunque a imitare un equilibrista intento in un numero a bordo di un tandem biposto. Da poco anche in versione bianca a base chardonnay. Gioca sullo chardonnay anche il Vedette, bianco dall’aroma di frutto fresco e croccante, per un sorso dal gusto sapido e beverino con sensazioni citrine che stuzzicano il palato. Tra le ultime uscite poi c’è L’Impertinente, pinot nero fresco e pepato, la cui etichetta raffigura la semplice immagine stilizzata di un micio che, senza troppo pensiero per eventuali spettatori, si cimenta nella toilette quotidiana. Più sofisticata invece la veste del Donna Fernanda, una chicca ispirata alla madre del winemaker, che si presenta con una sagoma in controluce alla Audrey Hepburn. Un vino dolce in formato 0,35 l, di un giallo opalescente quasi ambrato, che lascia lunghe e lente lacrime sul calice. Al naso mela cotogna e composta di albicocche, un brodo di giuggiole con note di pepe bianco e ricordi d’incenso. Dolce nei profumi, ma schietto, quasi secco al palato e dalla freschezza affilata. Un po’ come una donna dall’aspetto elegante e seducente, ma dalle parole dirette, che non lasciano troppo spazio alle repliche.

Emiliano, chi è l’enologo con la camicia?

L’appellativo mi venne affibbiato in occasione di una delle prime vinificazioni in cui mi sono cimentato subito dopo aver conseguito la laurea alla fondazione Mach. Mi presentai in camicia rigorosamente bianca per eseguire delle operazioni che avrebbero dovuto lasciarmi molti ricordi sul tessuto. Incredibilmente a fine giornata la camicia era ancora immacolata e uno dei lavoranti mi schernì per la mia fortuna sfacciata. In realtà non sapeva che io indosso sempre la camicia al lavoro nel mio locale e la sera precedente le cose andarono per le lunghe… quindi mi buttai a letto così com’ero vestito per un breve riposino e mi alzai prestissimo per l’appuntamento in cantina.

Perché hai deciso di iniziare a “fare” vino?

Il mio lavoro in Vineria è sempre stato accompagnato da una passione molto forte per il mondo del vino e della sua ricerca. Dall’inizio della mia gestione del locale ho intuito che i vini a disposizione sul mercato erano quasi sempre gli stessi e quindi i clienti avevano la medesima offerta. La mia ricerca di piccoli produttori nei vari incontri e nelle degustazioni in cantina e nelle fiere mi hanno concesso uno scalino in più verso l’esplorazione di questo meraviglioso settore. Il passo successivo è stato breve. Per iniziare in punta di piedi a produrre un vino ho scelto di mettermi in gioco a 45 anni e conseguire una laurea. Oggi ho un vino per la mia Vineria che rispecchia la mia interpretazione di un vitigno.

Ph Benedetta Dolecki

Oggi c’è molta attenzione concentrata sulla figura del vignaiolo, ma tu di fatto sei un winemaker senza vigna, è una mancanza?

Tutt’altro. La possibilità di avere a disposizione una gamma di varietà curate in campagna da persone fidate mi dà l’opportunità di scegliere sempre le partite migliori. È evidente che nei miei progetti c’è un terreno da gestire personalmente.

Qual è il tuo approccio alla vinificazione?

Mettere in bottiglia un vino autentico, che rispecchi la varietà e il terroir in cui è inserito. La possibilità di non intervenire a livello enologico mi permette di preservare le caratteristiche naturali del vitigno. Il fine è quello di produrre un vino semplice ma non banale, di pronta beva e con un tasso alcolico accettabile, prodotto monitorando (questo sì) a livello analitico l’andamento delle fermentazioni e del successivo affinamento.

Perché hai scelto di utilizzare solo anfore e quali?

La scelta di utilizzare anfore in terracotta è il modo più autentico di preservare, secondo me, le caratteristiche iniziali della varietà nel contesto in cui è inserita. La microossigenazione della parete porosa della terracotta permette un’evoluzione in fase fermentativa, senza cedere alcun tipo di contaminazione rispetto ad esempio al legno. Le anfore sono state un’intuizione che ha permesso di interpretare in modo diverso le varietà preservando le caratteristiche del vitigno di partenza. Ho scelto le anfore di Francesco Tava, che ha sviluppato negli anni una ricerca specifica sul rilevamento della porosità della parete ceramica e della sua interazione con le diverse varietà.

Qual è il tuo punto di vista sul concetto di vino naturale? Pensi che ci siano dei preconcetti in generale?

Sul vino naturale ci sono discussioni infinite, anche sulla stessa definizione. Non sto a sindacare se sia più o meno corretto definirlo in questo modo, ma penso che alla base ci debba essere un rispetto assoluto per la campagna, il punto di partenza per ogni produzione del concetto di qualità. La lotta integrata, la cura nelle potature, i trattamenti che devono essere poco invasivi sono i punti in comune di ogni vignaiolo che voglia produrre qualità. I protocolli biologici e ancor più quelli biodinamici sono senza dubbio un ottimo inizio dopo i danni che l’agricoltura intensiva ha prodotto.

Ph Benedetta Dolecki

Tu arrivi alla cantina partendo dalla Vineria di famiglia. Come la tua conoscenza del consumatore ha influenzato il tuo lavoro?

La Vineria è sempre stata un palcoscenico privilegiato per osservare le abitudini e i gusti del consumatore. La volontà di condurre il cliente a provare nuove varietà e nuovi modelli di vinificazione si è dimostrata vincente. La clientela della Vineria è formata da semplici consumatori che godono del piacere di un buon bicchiere, ma si è popolata negli ultimi anni di operatori, sommelier, enologi che entrano nel locale cercando quello che non è mai stato ancora assaggiato. Le minuscole cantine di produttori altoatesini, i vini delle colline del Golan, i vini Georgiani e i piccolissimi vigneron della Champagne sono esempi della mescita che servo ai miei commensali. L’opportunità di produrre un vino mio ha permesso di interpretare come meglio potevo le caratteristiche della varietà senza aggiungere solforosa o corrompere con l’uso del legno i profumi e i sapori della campagna.

C’è un progetto di educazione enoica dietro la Vineria Baroldi oppure è solo un luogo in cui star bene con un bicchiere?

La mia volontà da sempre è stata quella di educare il più possibile alla mescita di qualità e negli ultimi anni l’introduzione di vini di nicchia affinati in anfora. La risposta è stata lenta, ma inesorabile. La capacità di tradurre un vino al consumatore finale deve passare dal tempo che ci si dedica e quindi da un approccio diverso e di formazione.

Dato che alla Vineria avete puntato su una ristorazione di pesce anche sofisticata, come immagini gli abbinamenti? Quali etichette prediligi?

Gli abbinamenti che preferisco sono rivolti al mondo delle bollicine di cui sono tifoso. Il mondo francese ne è il protagonista e la ricerca dei piccoli produttori è stata vincente. Ovviamente i mostri sacri sono sempre presenti, ma vedo una certa riluttanza verso le grandi Maison. La richiesta è sempre più rivolta a varietà poco conosciute, a vivere un’esperienza degustativa differente. Cosa che puntualmente accade abbinando le varie tipologie di vini con un ventaglio di piatti appropriati. Le crudità di pesce e le ostriche della Bretagna ben si accompagnano ai Blanc de Noir francesi di piccoli vigneron e la dolcezza del tonno del Mediterraneo va giù benissimo con la sapidità di un Sauvignon Blanc dell’amico Tropthalhof di Caldaro.

A proposito di etichette, quelle dei vostri vini sono giocate sull’ironia delle illustrazioni e anche dei nomi. Ci racconti come nascono?

Le etichette dei miei vini nascono dalla volontà di ritornare al passato con un tocco artistico e simpatico. Benedetta Dolecki, che cura i social e il web per la Vineria, ha creato le etichette traducendo perfettamente la mia idea di un vino come un prodotto conviviale. Un vino che ci ricorda la campagna dove è cresciuto e che sia un buon compagno di viaggio delle tavolate di amici che vogliono trascorrere una serata o un pomeriggio insieme. Di questi tempi se ne sente davvero il bisogno.