Luca Ferraris: Quanta poesia esiste nella parola Ruchè?

di Daniele Becchi

L’associazione dei produttori di Ruchè guida una Denominazione in forte ascesa, capace di rilanciare l’economia di un territorio svuotato dalle fabbriche. Il tutto seguendo la strada tracciata da Don Giacomo Cauda.

Sette comuni alle porte di Asti capaci di fare del vino un simbolo di rinascita, dopo che l’industrializzazione post-bellica li aveva svuotati di una gioventù che aveva preferito lasciare la falce in cambio di un martello. Un gruppo di produttori riuniti in associazione decisi a continuare l’opera di Don Giacomo Cauda, contadino travestito da parroco cui si deve la riscoperta di un vitigno scomunicato dai vignaioli del tempo. E un presidente, poco più che quarantenne, diviso tra l’amore per il rosso rubino del Ruchè e quello granata del Torino. A lui il compito di raccontare lo stato attuale di una delle Denominazioni emergenti del Piemonte, capace negli ultimi anni di registrare un costante aumento, nei numeri e nella qualità.

Luca Ferraris, partiamo dai numeri: 450.000 bottiglie nel 2010, un milione oggi. E tra dieci anni?

Volendo giocare direi due milioni, visto che le potenzialità di crescita di questo vino sono tante. Dopo le grandi scalate di oltre 20-30 punti percentuali registrate fino al 2016, l’incremento si è ridimensionato, attestandosi oggi tra il 10 e il 15% annuo. Con il Covid questa ascesa si è interrotta, a causa del prolungato stop che ha colpito il canale Horeca, dove si vendono circa i due terzi della nostra Denominazione.

Quali le ragioni di questo successo?

Il fatto che il Ruchè abbia trovato spazio nel panorama enoico è dovuto alla sua unicità: di fatto non esiste al mondo un vino simile al nostro. Pur convinto che il nostro sia un vino che si ama o si odia, io oggi non conosco nessuno a cui non piaccia. Gli eventuali ricordi negativi appartengono a chi lo ha assaggiato in passato, quando ancora la nostra competenza tecnica non era tale da eliminare completamente il residuo zuccherino, rendendo difficile piazzarlo sulle tavole della ristorazione e abbinarlo con dei piatti. L’arrivo, a metà degli anni 90, di nuove generazioni di produttori con solide conoscenze enologiche ha portato nelle nostre cantine buone pratiche come fermentazione a temperatura controllata e lieviti selezionati. Ricordo come, all’inizio del percorso di divulgazione del Ruchè, il problema era la discontinuità qualitativa. Oggi questo problema non esiste più, lasciando al gusto dei singoli la scelta della propria etichetta preferita.

Puoi raccontarci le tappe salienti della storia recente del Ruchè?

Tutto prende origine da Don Giacomo Cauda, parroco di Castagnole Monferrato che si mise a coltivare vigneti di Barbera e Grignolino, che erano i benefici parrocchiali della curia. Quando per sbaglio aprì una bottiglia di Ruchè in purezza se ne innamorò, decidendo così di piantarne una vigna nel 1964. Fino al riconoscimento della Doc, nel 1987, rimasero pochi coloro che ci credevano. Negli anni 90 arrivarono i giovani di cui ho in precedenza parlato, seguiti negli anni 2000 da investitori estranei al mondo del vino, innamoratisi di questo territorio. Ciò portò gli ettari vitati da 40 agli attuali 185, con conseguente sviluppo di una massa critica capace di aprire la nostra denominazione a nuovi mercati. Tra di essi giocano un particolare ruolo gli Stati Uniti, che assorbono circa il 70% del nostro export. Oggi nelle carte dei vini dei ristoranti italiani di New York troverete sempre un’etichetta di Ruchè, se non di più.

Quali le basi su cui poggiare la crescita futura?

Innanzitutto, sulla consapevolezza di non essere mai arrivati. Credo che la mia storia personale sia emblematica, visto che dopo venti anni spesi a Torino sono tornato nel paese di mio nonno per prendere in mano l’azienda familiare. Una volta capito che promozione e imprenditorialità sono le basi su cui si gioca il futuro di un’azienda, ho iniziato a seguire corsi di marketing, public speaking, imprenditoria agricola. Con ciò intendo sottolineare l’importanza della formazione: prima di andare in giro a divulgare un vino è necessario esserne all’altezza. Imparare le basi della comunicazione e dell’accoglienza. Dobbiamo insegnare cosa è il Ruchè di Castagnole Monferrato, un vino unico, con mille sfaccettature ma, al contempo, con mille problematiche nella gestione del verde, degli zuccheri e degli affinamenti. Però è proprio questa versatilità a renderlo capace di penetrare nelle carte dei vini.

Nato in città, a venti anni ti sei trasferito a Castagnole Monferrato. Cosa rappresenta questo luogo per te?

Qui ci sono cresciuto, poiché da piccolo il mio weekend significava Castagnole Monferrato. Ho vissuto dunque il decorso post-industrializzazione, con mio padre che mi raccontava come queste colline fossero tutto un vigneto, prima abbandonato, a causa del boom economico italiano, e in seguito riscoperto. Questo fa sì che nelle nostre colline siano migliaia gli ettari oggi vitati, senza però nessuna deriva monoculturale. Siamo davanti a una terra dalla grande biodiversità, e questo certamente rappresenta un asso nella manica che ci giocheremo.

Quale invece la tua idea sul Piemonte e conseguente ricetta per un suo pieno sviluppo?

Il Piemonte è il Piemonte; non c’è Borgogna o Champagne che tenga. Dal nebbiolo all’erbaluce, dal moscato alla barbera, la nostra regione ha una biodiversità unica capace di attestarsi su elevati livelli qualitativi. La ricetta che suggerisco è molto semplice: stare insieme, essere coscienti di chi siamo senza invidie e campanilismi. Personalmente ho sempre viaggiato con i barolisti, perché ai loro tavoli si sedevano acquirenti importanti, ai quali proponevo il mio Ruchè quando questo era ancora un vino sconosciuto, conquistandoli sia nel bicchiere sia con il prezzo, elemento a cui il mercato odierno fa molto attenzione.

In altre parole, penso realmente che ‘Piemonte’ sia un brand e per questo ritengo ottimale l’operazione Piemonte Land of Wine. Ci preoccupiamo di distinguerci dalle altre regioni italiane, senza pensare che, quando andiamo in giro per il mondo, la gente non sa dove è l’Italia. Ciò dovrebbe spingere i vari ‘land of wine’ regionali a riunirsi sotto un unico cappello una volta dato dall’ICE, e uscire come prodotto Italia o, se vogliamo, Italy land of wine.

Tornando al Ruchè, le sue ottime performance non generano il rischio di non essere in grado di soddisfare la richiesta di mercato?

Come detto la crescita dell’imbottigliato si aggira intorno al 10% annuo. Il monitoraggio quasi mensile che facciamo sullo stato dei vigneti ci rivela che anch’essi aumentano del 5-10% annuo. Trasformati gli ettari vitati in bottiglie, sono circa 1,5 milioni le bottiglie potenziali odierne. Ciò significa che c’è ancora dello sfuso che esce dal nostro territorio, lasciandoci dunque quel margine di bottiglie utili a soddisfare il mercato.

E dell’ultima arrivata in casa Ruchè, la tipologia riserva, cosa puoi dirci?

La tipologia riserva è stata riconosciuta nel marzo del 2020, portando la necessaria chiarezza sul mercato. Mi piace ricordare un’esperienza vissuta a Chicago, dove di cinque etichette di Ruchè a scaffale una presentava un prezzo più che doppio rispetto alle altre. Alla domanda del come spiegare questa differenza fattami dal responsabile del negozio mi resi conto che l’assenza in etichetta di una menzione aggiuntiva, riserva appunto, che giustificasse questo surplus di valore avrebbe reso difficile imporre una diversa soglia di prezzo. Da lì iniziò un confronto con i miei colleghi, che ci portò, a livello associativo, a richiedere la tipologia riserva.

Parlando di ‘riserva’ abbiamo introdotto il concetto di piramide qualitativa. Ritieni possibile nel prossimo futuro l’affermazione di una tipologia Ruchè all’interno delle DO Piemonte o Monferrato?

Assolutamente no. È una questione di storicità culturale e varietale, che nel caso del Ruchè è indiscutibilmente concentrato in questa piccola zona, a differenza di altre situazioni. Ricordo che fino a pochi anni fa nessuno voleva produrre Ruchè; ci prendiamo dunque tutto il merito di averlo riscoperto e, fino a quando la legge ce lo consentirà, controlleremo che nessuno lo utilizzi indebitamente al di fuori dei sette comuni storici. Rimandiamo quindi la discussione sull’uso del suo nome in altre Denominazioni al momento in cui qui non avremo più nemmeno un orto nel quale piantare nuove barbatelle.

Da un altro punto di vista potrebbe esistere il rimpianto di non aver capito che avremmo potuto fare il Castagnole Monferrato Docg, seguendo quanto fatto dal Barolo o dal Barbaresco. In tal senso però mi domando: quanta poesia esiste nella parola Ruchè, scritto indistintamente con l’accento acuto o grave, oppure chiamato Ruscet, Rusciot, Ruca o Ruschè. In un mondo, quello del vino, dove il francese rimane la lingua nobile per eccellenza, il nostro Ruchè è un elogio all’Italia.

Enoturismo: a che punto siamo?

Siamo al punto di partenza. Ci sono aziende che iniziano oggi, ci sono altre che si sono attrezzate alcuni anni fa e oggi stanno cavalcando un’onda incredibile e inaspettata. Il Covid, nel chiudere le frontiere, ci ha servito su un piatto d’argento i tanti turisti italiani snobbati altrove, consentendoci di vivere un’estate 2020 che non stento a definire folle.

Lo step successivo è far sì che le aziende oggi in ritardo si organizzino per aprire le proprie porte; in tal senso stiamo sviluppando un progetto di marketing territoriale che coinvolga e istruisca tutti gli attori rilevanti per il settore, dal macellaio al ristoratore, cercando di creare un sistema Ruchè. Importante sarebbe anche che a qualche chef importante cada l’occhio sul nostro territorio, facendo sì che alla ristorazione tipica, che io non cambierei mai, si sommi quella di alto livello. In tal senso ciò che mi fa arrabbiare è la preclusione di tanti stellati nei nostri confronti, convinti che altrove vi sia un volume d’affari maggiore senza considerare che anche la concorrenza lo è: abbiamo ristoranti pieni e persone che non sanno dove andare a mangiare.

Volendo trovare un difetto a questo territorio?

Nel fare i complimenti al comune di Castagnole Monferrato per il suo continuo appoggio, è necessario che anche le amministrazioni comunali smettano di fare un cieco campanilismo, tirandosi indietro perché la Denominazione non porta il loro nome. Ve lo immaginate il sindaco di Monforte d’Alba non sostenere il Barolo perché non porta il nome del proprio comune? Serve rispetto per l’unica economia che può cambiare il volto di questo territorio.
Ottima, invece, la collaborazione con il Consorzio Barbera d’Asti e vini del Monferrato, che ci dà un importante supporto, svolgendo peraltro un’attività di tutela che noi come associazione non saremmo in grado di fare.

Un’ultima domanda: al comunale di Castagnole Monferrato si gioca l’ideale derby Ruchè – Torino. Per chi tifi?

… è difficile, ma voglio risponderti. Il ruchè è una passione diventata lavoro, forse la cosa più bella della mia vita dopo la famiglia, che mi consente di svegliarmi felice il lunedì mattina. Il Toro invece è una fede religiosa, la croce che mi porto sulle spalle. Ricordo uno striscione di alcuni anni fa ‘Spendo più io in vino che Cairo nel Torino’: pur non avendola scritta io credo che questa frase mi rappresenti appieno, almeno in termini di spesa emotiva.

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