A confronto sulle potenzialità del vino del Sol levante con gli esperti Lorenzo Ferraboschi e Simone Baggio.
Stiamo sempre parlando di vino, o quasi. Non si tratta di un fermentato d’uva, bensì di riso. Il sake è probabilmente la bevanda giapponese di cui si sente più parlare e sebbene – eccezion fatta per gli appassionati – ci sia ancora molta confusione sulla sua provenienza e sul suo metodo di produzione, da alcuni anni l’Italia è uno dei massimi importatori al mondo.
Nel 2020 secondo il Ministero dell’Agricoltura Giapponese il nostro Paese ne ha importati quasi 130mila litri, piazzandosi al primo posto in Europa per volumi. Un primato che ci spetta dal 2018, mentre sul valore restiamo ancora indietro rispetto a Francia e Gran Bretagna.
Nel complesso si tratta di cifre contenute, ma considerevoli per un Paese che è tra i più importanti produttori al mondo di vino. Forse l’uno non esclude l’altro e la cultura gastronomica degli italiani, unita a una buona dose di curiosità, ci rende un mercato dall’interessante potenziale di crescita.
SAKE, CHI È COSTUI?
È innanzitutto necessario scardinare alcuni luoghi comuni a partire da quelli di base, come il confondere il sake con la cultura cinese o con il considerarlo un distillato da bere, magari caldo, a mo’ di shottino a fine pasto.
Detta in due parole, il sake viene prodotto dalla fermentazione del riso, dopo che è stato sbramato (levigato) e, dopo alcuni passaggi, fatto riposare con il fungo koji, che ha la capacità di trasformare l’amido in zuccheri semplici e rendere possibile la fermentazione.
A seconda delle lavorazioni se ne ottengono varie tipologie, ma in ogni caso non si tratta di un prodotto paragonabile per struttura o gusto al vino. Il grado alcolico è simile (tra il 12 e il 18% vol) ma, sebbene ogni sake abbia le proprie specificità, il suo più grande talento è in realtà l’esaltazione dei sapori delle pietanze a cui viene abbinato. Nella degustazione il suggerimento è sempre di berne un sorso assieme a un boccone, per agevolare la salivazione e valorizzare il gusto del cibo. E, differentemente da quanto succede col vino, la temperatura di servizio non serve ad apprezzare al meglio il gusto del sake, bensì quello del piatto, seguendone la temperatura di servizio per assecondare la riuscita dell’abbinamento.
Una sorta di catalizzatore, insomma, più che una “prima donna”, che sta iniziando a incuriosire anche il mondo dei cocktail.
Già da qualche anno anche Vinitaly non manca di riservare uno spazio al fermentato di riso nipponico e in occasione della Special Edition di ottobre la masterclass su sake e mixology ha segnato il tutto esaurito.
SAKE E MIXOLOGY
Curiosità, voglia di sperimentare e di mettersi in gioco, ma soprattutto di studiare e approcciarsi a un prodotto e a una cultura completamente diversi. Le chiavi per la diffusione del sake sulle tavole sono anche quelle per portarlo sui banconi, tra miscele e distillati.
“Il sake in mixology è in una fase di piena scoperta”, conferma Simone Baggio, referente veneto Sake Sommelier Association, che a Castelfranco Veneto gestisce un locale con cucina creativa, east touch e abbinamenti che spaziano verso sake e cocktail. “Siamo ancora in una fase in cui è più una moda. Mancano forse delle figure abbastanza preparate, consapevoli che i punti deboli del sake rappresentino in realtà il suo punto di forza. Il sake ha un proprio metodo di abbinamento, che non è né meno né più rispetto alle altre bevande, è semplicemente diverso e ci vuole conoscenza”.
Simone Baggio
SAKE O NON SAKE?
Punti di forza e limiti di una bevanda che va d’accordo col cibo, ma anche con la curiosità
Nel raccontare in Italia l’universo dietro al sake è impegnato Lorenzo Ferraboschi, oggi rappresentante italiano della Sake Sommelier Association (SSA) e fondatore di Sake Company, assieme al bartender e sake sommelier Simone Baggio.
Rientrato in Italia dopo un’esperienza di vita e lavoro in Giappone, nel 2015 Ferraboschi fonda Sakè Company, che nel giro di pochi anni diventa il principale importatore italiano specializzato nella bevanda.
Contemporaneamente, lo contatta la SSA, associazione giapponese di riferimento per degustatori, professionisti e appassionati di sake, di cui diventa il referente nazionale, avviando una serie di corsi per far conoscere il “vino” del Sol levante, dai semplici percorsi di avvicinamento alla formazione per sake sommelier certificati. Un impegno che sta portando SSA verso il migliaio di iscritti in Italia. Cifre modeste, se paragonate alla diffusione delle principali associazioni nostrane di sommellerie del vino, ma un traguardo importante se si pensa a un mercato che ha ancora molto da costruire.
Lorenzo, quale momento sta vivendo oggi il sake in Italia?
Nel 2018 l’Italia è diventata il maggior importatore di sake in Europa. Lo Stato giapponese stesso non se lo aspettava e quando l’ha capito tanti budget sono stati ridirezionati sul Belpaese. Prima c’era chi voleva spingere su Uk, Francia e altri Paesi, ma l’Italia ha sorpreso tutti.
In base alla tua esperienza con la formazione, c’è qualche zona d’Italia in particolare in cui rilevi una maggior curiosità?
Al momento il nord è quello che in proporzione ha più sete di imparare. Ne ha molta anche Roma. Abbiamo organizzato tanti corsi. Partendo dal nord, a Torino, Milano, a Castelfranco in Veneto, poi Bologna e ancora Liguria, Toscana e a brevissimo ne attiveremo nelle Marche. A Roma ne abbiamo attivati tanti, poi a Napoli, in Sicilia e a Bari. Per ora ci mancano solo Sardegna, Basilicata e poche altre regioni.
Com’è andata durante il periodo della pandemia? l’interesse ha continuato a crescere?
È aumentato esponenzialmente perché la gente ha avuto tempo di concentrarsi. Avevamo sempre limitato i corsi di introduzione a 25-30 persone. Il primo corso online che abbiamo attivato è stato a febbraio di quest’anno e avevamo più di 100 iscritti. Fino a quel momento mi ero opposto, i corsi erano sempre stati fatti vis à vis e online è molto diverso, non vedi le persone, tante spengono il monitor e non sai se ti hanno capito oppure no, quindi allontanavo quel momento. Poi però a febbraio c’erano troppe richieste e abbiamo fatto una prova col corso per sake sommelier certificato. È andato bene, con tutti i limiti dell’online.
Secondo te quali sono i driver di questa curiosità e di questo exploit italiano?
Siamo nella fase di marketing degli ‘early adapters’, quelli che vedono la novità e ci saltano su. Non siamo ancora in una fase matura, ma un evento come la degustazione alla Vinitaly Special Edition, cinque anni fa sarebbe andato deserto.
Non in fase matura, ma di sicuro in rapida crescita, quindi. Si tratta di un trend legato in qualche modo al sempre maggior successo del cibo giapponese?
Forse in un primo momento sì, ma quelli che continuano a comprare perché si appassionano e si interessano non sono necessariamente i ristoranti giapponesi o filo-giapponesi. È lapalissiano che un ristorante giapponese sia vicino al sake, ma se tu hai un normale ristorante, un cocktail bar o addirittura una hamburgeria e ti avvicini al sake, allora c’è qualcosa che ti ha solleticato. In questo momento ci siamo smarcati dal fatto che il sake debba stare nei ristoranti giapponesi. Alcuni ristoranti asiatici che vogliono alzarsi di livello propongono sake e negli ultimi anni ci sono sempre più ristoranti che intravedono nel sake un’equivalenza con una maggior ricercatezza.
Di quali tipologie di ristoranti parliamo?
Sicuramente gli stellati o anche ristoranti non stellati ma con piatti sofisticati, dove c’è una ricerca attiva di nuovi sapori e di nuovi abbinamenti. Il sake è sicuramente una frontiera che viene presa in considerazione. Tantissimi chef vengono a fare il corso di sake sommelier e tanti sommelier del vino fanno il corso, ma anche tanti proprietari di locali che non c’entrano nulla con l’Asia.
Secondo te la grande performance che possono avere i sake nell’abbinamento col cibo gioca un ruolo importante in questa crescita di interesse?
Secondo me all’inizio il sake potrebbe essere approcciato proprio come un ‘problem solver’, perché è l’unico modo per non avere la barriera all’ingresso. Mi spiego, con cosa abbino i carciofi o semplicemente delle uova al tegamino? Dove faccio fatica col vino, il sake di solito è molto facile risolva il problema. Spesso si inizia così. Altre volte viene inserito per spezzare la continuità del vino in un pasto, altre ancora è proprio il frutto della curiosità del bartender, del sommelier o del proprietario del locale.
Elemento di innovazione quindi, esaltatore del gusto e problem solver in abbinamento. Sono diverse le doti che possono far andare il sake a braccetto con la cultura italiana del cibo. Quali sono invece secondo te i suoi limiti per una maggior diffusione?
Il limite è un limite di forma mentis. Se approcci il sake come se approcciassi un vino, rimarrai sempre deluso perché ti mancano la struttura, il tannino, le componenti a cui sei abituato. Devi cercare di fare tabula rasa e assaggiare un prodotto senza aspettarti nulla. È come se ti dicessi ho fatto una bollicina nuova, assaggiala accanto al tuo Champagne e poi ti facessi assaggiare una birra. Non c’entra niente. Il sake ha una struttura molto diversa e quindi va approcciato da zero. Questo, se ne hai voglia può essere il suo merito, però se non ne hai diventa anche il suo demerito. Il suo essere un po’ privo di quella spina dorsale che caratterizza il vino, il fatto di non essere la prima donna è la caratteristica tipica del sake. È il suo merito ma poi è anche il suo demerito, perché diventa un po’ una barriera all’ingresso. Da ristoratore o bartender inoltre, la voglia o meno di metterti in discussione e di spendere quei minuti in più a spiegare ai commensali diventa la barriera.
Alla scoperta del sakè
Parte della sua esperienza Lorenzo Ferraboschi l’ha riassunta in un libro, “Guida al sake”, in uscita proprio negli scorsi giorni. Una sorta di passe-partout per il mondo del sake e punto di partenza per tutti coloro che vogliono saperne di più. Tra le pagine, un viaggio attraverso la storia del ‘vino’ nipponico, il suo ruolo culturale nel Paese d’origine e nel mondo e la sua produzione, per scoprire tutto il lavoro che c’è dietro la bevanda giapponese più famosa.
Lorenzo Ferraboschi e la copertina del suo libro, “Guida al sake”