Sughero, dalla pianta alla bottiglia e oltre

di Eugenia Torelli

Il punto su un settore chiave per il comparto enoico, dall’aspetto della sostenibilità a quello del ciclo di vita dei prodotti.

Cresce in ‘formato foresta’, le piante lo rigenerano naturalmente e una volta lavorato può avere vari impieghi, tra cui nell’edilizia e nel settore calzaturiero, ma soprattutto in quello vitivinicolo.

Oggi il sughero resta di gran lunga il materiale più utilizzato per le chiusure delle bottiglie di vino e nel mondo se ne producono in media 200mila tonnellate l’anno per un giro d’affari di circa 1,8 miliardi di euro.

Tra gli aspetti più interessanti del settore, ci sono quelli legati al lungo ciclo di vita del prodotto, alla sostenibilità della produzione e alla fonte di reddito costituita dal comparto e dall’indotto.

Photo credit: Apcor

I NUMERI, DALLA FORESTA ALLA PRODUZIONE
Oggi le foreste da sughero coprono circa 2,1 milioni di ettari di superficie, localizzati nel bacino del Mediterraneo occidentale, per lo più tra Portogallo, Spagna, Marocco, Algeria, Tunisia, Italia e Francia. Un patrimonio da cui proviene la gran parte della produzione mondiale, stimata ogni anno intorno alle 200mila tonnellate di materia prima. Il Portogallo da solo ne produce circa la metà, seguito dalla Spagna (30%) e – con maggior stacco – Marocco (5,8%), Algeria (4,9%), Tunisia (3,5%), Italia (3,1%) e Francia (2,6%).

Nel principale Paese produttore, le aziende operanti nel settore sono circa 640 per oltre 8.300 lavoratori impiegati, a partire dalla regione dell’Alentejo, dove sono localizzate la maggior parte delle foreste, fino alle zone di lavorazione (per lo più Entre Douro e Vouga). Nel nostro Paese invece, il 90% delle sugherete si trova in Gallura, nel nord della Sardegna. Le circa 6mila tonnellate di sughero decorticate localmente ogni anno, vengono lavorate da 250 aziende, per circa 6mila impiegati, tra lavoratori diretti, stagionali e indotto. Una produzione che per il 70% è destinata ai tappi – quasi 1 miliardo e mezzo di pezzi ogni anno -, per il 16% alla bio-edilizia e la restante parte al settore calzaturiero e all’artigianato. Le applicazioni infatti sono moltissime, dalla nautica all’arredamento, fino a design, giocattoli, abbigliamento e accessori.

Photo credit: Apcor

SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE
Dalle foreste fino al materiale di scarto e al ‘fine vita’ del prodotto, il sughero è un materiale dai numerosi aspetti positivi in termini di sostenibilità.
Si tratta di una coltura che può convivere con altre, tra cui anche colture da frutto e con l’allevamento di animali – afferma Carlos De Jesus, direttore marketing e comunicazione di Amorim, azienda leader in Portogallo –. Inoltre, non presenta le stesse problematiche poste dalle piantagioni intensive per l’ambiente e per il suolo”. Tra i più importanti brand al mondo, Amorim ha dal canto suo investito molto in ricerca e in particolare nel calcolo dell’impatto ambientale della produzione di sughero. I dati vengono aggiornati ogni anno e tutti i report sono reperibili sul sito aziendale.

Altrettanto fa Apcor, l’Associazione dei produttori di sughero portoghesi, che stima ogni anno 14 milioni di tonnellate di CO2 compensate dalle foreste di sughero. Ma non è solo una questione di ossigeno, la coltura di origine pesa (positivamente) in vari modi. Uno di questi è la biodiversità. Secondo le stime dell’associazione infatti, ogni km2 di sughereta può fare da habitat per 135 differenti specie di animali, senza contare la flora, oltre a costituire un freno naturale alla desertificazione dei terreni. A questo va aggiunto il fatto che prelevare il sughero non comporta l’abbattimento degli alberi, bensì la periodica ‘decortica’ dello strato superficiale della corteccia, a partire dai 25 anni di età della pianta e poi a seguire ogni 9 anni, il tempo necessario affinché si rigeneri.

Photo credit: Apcor

DALLA SOSTENIBILITÀ SOCIALE AL RIUSO
Da un punto di vista della sostenibilità sociale, proprio la decortica del sughero risulta essere il lavoro agricolo meglio pagato al mondo, con un compenso che si aggira – secondo le stime – intorno ai 140 euro al giorno per i lavoratori stagionali che se ne occupano, per un periodo di circa 3 mesi l’anno. Un lavoro di precisione e riservato a personale altamente specializzato.

Nel comparto della lavorazione poi, la manodopera impiegata è molta, anche per le aziende di dimensioni medio-grandi. Ne è un esempio Lafitte, gruppo francese con 11 stabilimenti posizionati tra il Portogallo, la Francia, gli Usa e anche in Italia. Nella sede di Porto in Portogallo, gran parte della lavorazione avviene a mano, dal taglio delle cortecce all’ispezione finale per rintracciare i difetti di produzione o la presenza di TCA (tricloroanisolo, molecola responsabile dell’odore “di tappo” che rovina il vino). Un’operazione che – salvo casi più rari per procedimento chimico – viene ancora svolta da un gruppo di lavoratrici esperte che annusano i tappi uno ad uno. Una catena di montaggio che può sembrare singolare, ma che dà lavoro a moltissimi operai specializzati e che rappresenta una fonte di reddito per numerose famiglie.

Una fase del controllo qualità nello stabilimento di Porto di Lafitte

Infine, una volta utilizzati, anche i tappi di sughero possono essere riciclati, così come possono essere utilizzati gli scarti di lavorazione, perché del sughero – un po’ come del maiale – non si butta via nulla.

Ci sono aziende, come Granorte, che si occupano esattamente di questo. Con circa 140 impiegati e base sempre a Porto, lo stabilimento lavora i prodotti di scarto derivanti dalla produzione di tappi di sughero, che sminuzzati e riassemblati, danno vita a prodotti per l’edilizia e l’arredamento. Almeno la metà della produzione consiste in pavimenti flottanti, con ottime capacità di isolamento termico e acustico, ma ci sono anche fogli, coperture per pareti e molto altro, fino ai mobili e addirittura le vasche da bagno – sì, vasche da bagno di design.

La lavorazione di uno sgabello presso lo stabilimento di Granorte

PERCEZIONE E VINI PREMIUM
È di qualche mese fa uno studio di neuroscienze condotto da Iulm, in collaborazione con Apcor e Assoimballaggi, sulla percezione della chiusura in sughero rispetto al tappo stelvin. I dati, raccolti da un panel composto al 50% da esperti e al 50% da consumatori abituali di vino, mostrerebbero una miglior percezione dei vini imbottigliati con tappo in sughero, così come una maggiore disponibilità ad aumentare il budget di spesa. Va da sé che si tratta di dati riguardanti i consumatori italiani e che la percezione è un fattore in gran parte culturale, variabile di conseguenza da mercato a mercato. L’industria offre tappi in alluminio, plastica e materiali sintetici, vetro e anche bioplastica. Di per sé, anche quando si parla di tappi in sughero, si ragiona di numerose tipologie differenti, dai naturali monopezzo a multipezzo, tecnici, agglomerati e molti altri, ciascuno con esiti qualitativi differenti.

Produzione di tappi per spumante presso uno degli stabilimenti di Amorim

Non ci sono chiusure giuste o chiusure sbagliate, ma solo scelte differenti in base alla tipologia di vino e anche di target, dato che pur sempre di packaging e di un prodotto di consumo si parla. Per ogni tipologia, sono inoltre numerose le possibilità relative alla porosità dei materiali e alla capacità di conservazione del contenuto, ma quando si parla di vino si parla anche di tempo e, in termini di studi e di risultati, il sughero gioca tradizionalmente e cronologicamente di anticipo. Non è un caso se a scommettere sul sughero sono soprattutto i vini premium, per i quali negli ultimi dieci anni le chiusure in sughero sono passate dal 47% al 67,6% (dati Nielsen). Un segmento nel quale questo materiale la fa da padrone indiscusso, con evidente consapevolezza del consumatore.