Viaggio filosofico tra i calici di Andrea Pizzolato, giovane ‘ghost wine maker’, che vede nel vino una bevanda spirituale e nella tecnica la chiave per l’elevazione.
Questa intervista segna una pausa natalizia della rubrica, che riprenderà dopo le Feste.
Andrea Pizzolato non è un vignaiolo. “Sono tipo Split! – scherza – lo Split dell’enologia a tutto tondo!” (‘Split’ è il titolo di una serie di Netflix il cui protagonista è affetto da disturbo dissociativo della personalità, ndr). “Quando mi chiedono che lavoro faccio non rispondo mai dicendo quello che faccio ma quello che sono: io sono un enologo”. Chiedergli che lavoro fa produce per prima cosa questo. Andrea, la prima risposta te la dà di getto e di spirito – veracemente toscano – poi si ferma un attimo, elabora e inizia a scendere in profondità. Dietro la battuta pronta c’è una specie di porta che, una volta superata, apre universi paralleli di idee e riflessioni. Dopo la prima risposta, le parole scorrono a fiumi.
Classe 1989, Andrea è il responsabile tecnico-commerciale Toscana della veronese Vason, azienda specializzata in impianti e prodotti per l’enologia. “Lavoro dietro le quinte, mi sento un po’ un informatore degli altri enologi – spiega – Per come corre il mondo oggi, i colleghi o si trovano alle prese con un sacco di burocrazia oppure in viaggio tra una cantina e l’altra, quindi ci sono figure come la mia che si occupano di aggiornarli. In questo, ho avuto la fortuna di avere un grande maestro, che è stato Ferrarini, consulente dei consulenti”.
Sebbene della sua pronuncia non abbia piegato una consonante, Andrea ha studiato enologia all’Università di Verona. È qui che è stato allievo dell’enologo e formatore Roberto Ferrarini e, una volta laureato, si è fermato a lavorare al suo fianco come ricercatore. “Sono andato a sciacquare i panni in Adige”, ironizza.
Alcuni dei progetti che i due avevano assieme si sono inaspettatamente interrotti con la scomparsa del professore nel 2014, ma gli insegnamenti sono rimasti e anche gli obiettivi. “Lo dissi a tutti i colleghi: da oggi abbiamo una responsabilità in più, perché lui non c’è, ma noi sì. Dobbiamo proseguire in questo atto di evangelizzazione enologica”.
Oggi, nelle sue parole e nel suo lavoro quel nome torna sempre. Anzi, alla domanda “Che vini bevi?”, la risposta parte proprio da lì.
Ciao Andrea, come stai?
“Direi in forma smagliata. Sono in macchina e sto andando a recuperare dello Champagne”.
Ma tu che vini bevi?
“Mi viene in mente quello che disse Ferrarini: ‘per fare un grande vino devi sapere qual è un grande vino’. Questa cosa mi è sempre rimasta impressa ed è il motivo per cui continuo ad assaggiare e a cercare riferimenti. Ad esempio, la Borgogna ormai è fuori prezzo, ma un degustatore attento non può non aver assaggiato i vini di quella regione. E pure i vini che non meritano, vanno assaggiati”.
Assaggi molti vini per lavoro, ma che lavoro fai esattamente?
“Sono tipo Split! lo Split dell’enologia a tutto tondo! Quando mi chiedono che lavoro faccio non rispondo mai dicendo quello che faccio ma quello che sono: io sono un enologo. Ho a che fare con le cantine più importanti della Toscana, perché faccio loro da fornitore per la ditta Vason. Ho seguito anche l’estero con un progetto molto bello, adesso mi occupo della Toscana ma spesso sono in giro per l’Italia”.
Quindi anche il tuo lavoro è parte di quel calice che ci versiamo a casa.
“Il mio è un lavoro che resta dietro le quinte. Sono una sorta di ‘ghost wine maker’. In realtà sarei un animale da palcoscenico e a un certo punto della mia vita questo ruolo mi era rimasto stretto, ma poi mi sono chiesto cosa fosse realmente importante per me, se apparire o fare qualcosa di utile per il territorio. Ho trovato il mio posto nel mondo sapendo che, pur non apparendo, il mio lavoro e tutto quello che ho imparato lo posso mettere a frutto su un terreno estremamente ampio e lavorando con tante aziende blasonate”.
E di vini tuoi, ne fai?
“Nell’azienda vinicola di famiglia, dove porto avanti alcuni progetti e prossimamente sì, uscirò anche con i miei vini. Poi ci sono aziende amiche a cui do dei consigli enologici. Fare vino è anche il motivo per cui bevo tanti vini. Ferrarini diceva ‘non devi innamorarti del bere vino, ma devi sempre mantenere un certo distacco’. Ecco, io con questo non sono particolarmente d’accordo. Sono innamorato perso del vino! per me è diventato lo spioncino da cui guardo il mondo”.
Spiegamela questa.
“Gran parte della vita l’ho dedicata all’enologia. Per un certo periodo ho smesso di leggere romanzi per leggere libri di settore. Secondo me, se ti specializzi in un ambito e inizi a conoscerlo, quello deve diventare come una chiave di accesso per conoscere il mondo. Ti faccio un esempio, se un designer di sedie va in un locale e vede le sedie che ci sono dentro, capisce subito dalle sedie in che tipo di locale si trova. Se bevo un vino degli anni ‘90 del Chianti Classico, cosa ci vedo? ci ritrovo un contesto storico, un clima, una società di un certo tipo, è il motivo per cui si cerca di bere le novità per capire cosa va di moda. Si tende a cercare la ragione del successo di un vino all’interno del settore vino e non c’è niente di più sbagliato. Perché i vini naturali hanno successo sul mercato? Per capirlo, non si deve guardare all’interno dell’enologia, bisogna guardare le sfilate di Maison Margiela. Ormai si può iniziare a parlare di un ‘gusto globalizzato’ e faccio riferimento alla moda perché è uno dei settori più in vista, ma non è l’unico esempio”.
Quindi a cosa è legato l’appeal dei vini naturali?
“Il vino è l’unico alimento che ha una connotazione realmente spirituale. E menomale! Secondo me è il motivo per cui il consumatore non perdona sofisticazioni. Infatti, pensandoci la dicitura ‘contiene solfiti’ è stata la punta dell’iceberg. Il vino è percepito come un tramite verso qualcosa di superiore, per cui deve essere puro. Se si chiede a un consumatore che cosa c’è in un bicchiere di vino? Ti risponderà: succo di uva fermentata e poco più, perché questo è quello che purtroppo da sempre si racconta. Diciamo che il vino nasce in vigna. Invece, per come la vedo, il vino nasce totalmente in cantina”.
Quando dici che il vino è spiritualità, lo dici in riferimento alla religione cristiana?
“Non esattamente. C’è un libro che si chiama ‘Epistenologia’ di Nicola Perullo, un vero e proprio trattato di filosofia. Lui scrive di un ‘sentire’ nel vino. Per questo quando parlo di spiritualità parlo anche di filosofia. Alcuni dei vini più grandi premiati dalla nuova critica, sono vini in cui non è importante ciò che c’è ma ciò che non c’è. In una società occidentale, molto legata all’apparire, fino a pochi anni fa quest’idea non esisteva. Adesso, tramite la contaminazione con il mondo orientale, anche il senso di vuoto – che è un elemento della religione buddhista – acquista importanza. È un po’ la stesso concetto che si ricerca nei vini. Quei vini molto eleganti, in cui percepisci un qualcosa che esiste ma che non puoi toccare. O meglio, una qualcosa che si tocca, non necessariamente con la lingua ma da un punto di vista spirituale. E secondo me quando affini le tue abilità di degustatore, questi tratti li riconosci”.
Elevarsi attraverso il vino?
“Secondo me il vino è un prodotto umano che tende a qualcosa di trascendente, che ha a che fare con l’uomo e con i suoi lati più nascosti. Pensandoci, il vino nella religione e nell’arte pagana era legato un po’ a questo. Nel momento in cui si beve, il prerequisito non è tanto il fatto che il vino sia buono, quanto il fatto che il piacere da esso derivato debba essere la chiave di accesso per qualcos’altro. È un po’ come la sessualità, no? l’uomo prova piacere durante l’atto sessuale, perché quell’atto deve servire ad altro. Quindi anche le tecniche di degustazione possono risultare fini a sé stesse. Avere gli strumenti per capire che aromi ha un vino e fermarsi a studiare quanti secondi dura in bocca è roba da saltimbanco. Presente quando mostrano certi giocatori di calcio che fanno mille palleggi strani? Magari poi per giocare durante una partita sono negati, poi ci sono quelli un po’ bruttini da vedere, ma che in campo fanno scintille. Io quello voglio essere, alla Bobo Vieri!”
Quindi come si degusta un vino?
“Mi fai domande difficili, abbiamo alzato il tono della discussione, ora non posso cadere inesorabilmente… Con un bicchiere”.
Qual è il territorio a cui ti senti più legato?
“Enologicamente, il Chianti Classico. Perché è fra i territori più belli e per me è anche casa. Così come anche San Gimignano con la Vernaccia. Ma ce ne sarebbero tanti altri a cui sono legato, come l’Etna e la Borgogna. Quello del vino e dei territori del vino è un linguaggio talmente universale, che mi sento a casa ovunque ci sia la cultura del vino”.
Secondo te la formazione di un enologo deve essere solo tecnica?
“No. La tecnica serve a esplorare qualcosa che sta oltre, ma devi unirla a delle conoscenze che non sono tecniche. È lì che si trova la completezza, altrimenti si resta ingegneri del vino. Il vino è una bevanda spirituale, si può eccome trattarla con un approccio tecnico, ma devi usare la tecnica come una chiave d’accesso, un po’ come spatole e pennelli per un artista”.
È necessaria una formazione umanistica?
“In parte. Se ben ricordo qualche anno fa Gravner a ViniVeri a Cerea, disse che per imparare l’enologia si deve studiare la filosofia. Io dico esattamente il contrario, e cioè che per imparare la filosofia bisogna prima imparare l’enologia, perché esiste una filosofia del vino. È dalla tecnica che parti per arrivare a un’elevazione differente. È come con la musica. Prima c’è lo studio della tecnica, poi si arriva a tutto il resto”.
Quale è per te la parte più interessante nel tuo lavoro?
“È la parte di ideazione del vino. Dopo lo fai, ma prima devi averlo tutto in testa. È come se prima stesse in un mondo delle idee e poi lo realizzassi. È a questo che serve la tecnica, il vino che intendi fare, ce l’hai in testa solo se conosci la tecnica”.
Sui tuoi profili Facebook e Instagram compaiono molto spesso foto di grandi bottiglie. Degusti per lavoro o per piacere?
“Il piacere è quello con cui cominci, ma per piacere non bevo quasi mai. Cerco piuttosto di bere vini che raccontano delle storie, non quelle che parlano di paesaggi tout-court ma anche di paesaggi interiori. Il più grande valore che può avere un vino è essere territoriale, ma non c’è solo questo. Quando porto al naso un vino di Pacalet – Philippe Pacalet, vigneron di Beaune, ndr – non riconosco Gevray-Chambertin o Chambolle-Musigny, riconosco quel produttore lì. È una cosa che da un punto di vista territoriale può rappresentare una sconfitta, ma talvolta con quello stile viene espresso un concetto che mi piace moltissimo, che mi ricorda il concetto giapponese del wabi-sabi, l’accettazione dell’imperfezione delle cose e dell’impermanenza. Pessoa diceva ‘noi non ci realizziamo mai, siamo un pozzo che fissa il cielo’. Il vino, che è prodotto degli esseri umani, per me è la stessa cosa. I miei vini preferiti sono quei vini che sembrano in viaggio loro stessi come mi sento io, vini il cui non essere perfettamente compiuti costituisce già di per sé una forma di compiutezza. È un po’ la sensazione di chi è partito e non sa dove arriverà”.