Nell’intervista ad Alberto Orengia, export manager di Marchesi Frescobaldi, uno sguardo a strategie, Ocm e nuove tendenze, tra consumi domestici, wine bar e vini naturali.
Tra un lockdown e l’altro, la politica cinese di tolleranza zero contro il covid deforma le vie del consumo di vino. Da un lato ne ostacola la logistica, rallentandola e bloccandola attraverso le chiusure localizzate, dall’altro sposta le bottiglie tra le mura domestiche, dove si stappa con sempre maggior frequenza.
Sul fronte del consumo on trade, fioriscono i wine bar, che nei momenti di riapertura diventano una meta per appassionati, oltre che un importante punto di osservazione per gli operatori di settore, che da qui possono monitorare parte delle etichette e del consumo, in un mercato in cui non è necessariamente facile capire dove vanno le bottiglie una volta vendute.
A sorpresa rispetto agli anni passati, tra i calici dei cinesi arrivano anche i vini naturali con tanto di wine bar dedicati. Un fenomeno che, un po’ come sta succedendo in Italia, coinvolge soprattutto i giovani e i consumatori meno esperti. A fare da traino, più che la responsabilità ambientale e la ricerca di un prodotto dalla lavorazione meno industriale, sembrano essere il bisogno di affermazione e autoidentificazione (come sta succedendo in Italia).
Di mercato, di Ocm e di consumi parla Alberto Orengia, export manager Asia Pacific di Marchesi Frescobaldi, nell’intervista a VinoNews24, aspettando la sessione del Parlamento di marzo 2023.
Orengia, che effetto hanno avuto questi anni di pandemia sul consumo di vino in Cina?
“Con i lockdown e tutte le restrizioni che i cittadini hanno dovuto fronteggiare, parte del consumo si è spostato tra le mura domestiche e questo per il mondo del vino è uno sviluppo potenzialmente positivo, nonostante nel complesso la pandemia abbia danneggiato molto l’economia cinese. Il fronte invece su cui la crisi sanitaria ha avuto un impatto negativo è soprattutto quello logistico. A volte chi vuole comprare non può farlo perché, in base alle restrizioni ancora in atto, ogni volta che emerge un caso di covid, scattano lockdown localizzati e molto severi, per cui la logistica e le consegne sono fortemente compromesse. Spesso non c’è neanche l’opportunità di attivare i consueti procedimenti necessari per il vino, dallo sdoganamento del prodotto al trasporto su ruota, fino al delivery locale”.
Sono peggio le limitazioni logistiche rispetto alle chiusura dell’horeca?
“Diciamo di sì. L’horeca è stata chiusa per determinati periodi e continua ad essere chiusa in base ai lockdown locali. Sicuramente ha un impatto importante, però direi che la questione logistica a livello macro è stata molto più critica”.
E in termini di preferenze rispetto ai prodotti c’è stato qualche cambiamento?
“Uno dei trend sorti negli ultimi anni è quello dei vini naturali, arrivati soprattutto nelle città più grandi, come Shanghai e Pechino, in cui sono spuntati diversi wine bar a tema. È una cosa che sei anni fa avrei trovato impensabile, mentre adesso sta avvenendo, un po’ per moda, un po’ per scherzo, un po’ per il lavoro di alcuni sommelier e per l’effetto dei social network. Sono prodotti che secondo me si posizionano come una scelta di ‘autoidentificazione’. Una specie di ‘personal branding’ sociale . L’interesse spiccato per questo tipo di prodotti riguarda soprattutto i consumatori più giovani e meno esperti, che si sono affacciati di recente al vino”.
È una cosa che ha a che fare con il rispetto per la natura e la sostenibilità?
“Non credo. Penso sia più una questione di marketing, il fatto di cercare qualcosa di unico e trendy. Non è tanto una scelta legata alla sostenibilità del vino, quanto all’aspetto comunitario e al contesto sociale. Molto spesso i giovani frequentano un wine bar a tema naturale insieme a persone con i loro stessi interessi e con caratteristiche socioeconomiche affini. Trovo si tratti proprio di un aspetto socio-culturale, più che di un particolare interesse verso il modo in cui il prodotto è stato realizzato”.
Quando si parla di vini naturali si parla generalmente di piccoli produttori, che non spesso si lanciano in viaggi commerciali verso la Cina. Come si muovono gli importatori cinesi per trovare vini naturali all’estero?
“Sono pochi gli importatori che si sono specializzati in questo segmento. Si tratta molto spesso di aziende con personale francese o europeo che conosce in maniera abbastanza approfondita i produttori e i marchi più in voga sui mercati maturi, muovendosi autonomamente. Da parte dei produttori c’è poca attività, perché si tratta di aziende molto piccole che sicuramente non hanno in cima alle proprie priorità quella di andare in Cina, per cui dipende molto da chi gestisce l’azienda d’importazione”.
Ci sono molti stranieri che gestiscono aziende di importazione?
“Sì, soprattutto i francesi, qualche italiano e qualche tedesco. È una nicchia che si sono creati soprattutto gli europei – più che operatori dagli Usa o dal Nuovo Mondo – che hanno aperto aziende di importazione e che intrattengono ovviamente ottimi rapporti con la ristorazione, soprattutto internazionale. Il consumatore tipo che si reca nei wine bar dedicati ai vini naturali, ad esempio, frequenta anche questo tipo di ristorazione nelle grandi città”.
E i wine bar ‘normali’?
“Quello dei wine bar in generale è un altro trend in crescita. Si sono moltiplicati anche nelle città più ‘piccole’, quelle che chiamiamo tier 2 e tier 3, e che in realtà vanno dai 2 ai 5 milioni di abitanti. Per noi è tantissimo, ma se le paragoni a Shanghai che ne ha 30 milioni… (ride) Qui, fino a 3-5 anni fa, si faceva davvero fatica a trovare dei wine bar. Magari si trovavano delle enoteche che permettevano di aprire qualche bottiglia, ma mancava il concetto del servizio, di una certa cura dell’ambiente, del consumo sul posto. Adesso la situazione è cambiata e questo fa presagire uno sviluppo positivo per quello che riguarda il futuro del consumo in Cina. Una cosa che è sempre stata molto difficile in questo paese è verificare dove vengono aperte le bottiglie, per cui finalmente qualcuna la si può vedere stappata sui tavoli dei wine bar”.
Quali sono adesso le principali difficoltà e quali invece le opportunità per i vini italiani in Cina?
“Per quanto riguarda le difficoltà, il fatto che noi italiani siamo un ‘ecosistema’ molto frammentato e complesso. I cinesi hanno una conoscenza abbastanza limitata dei principali marchi italiani e delle denominazioni. I paesi che hanno avuto maggior successo in Cina, come Australia e Cile, sono stati molto bravi nel semplificare il proprio messaggio e ovviamente si focalizzano su vini più facili da comprendere, ad esempio i varietali a cui aggiungono delle menzioni come ‘riserva’ o ‘premium’, che hanno un puro scopo di posizionamento. Noi facciamo molta più fatica, a partire dai nomi delle regioni e delle uve, molto lunghi e difficili da pronunciare per i cinesi. Ordinare una bottiglia di vino italiano può diventare un’impresa anche molto difficile, ovviamente è più facile chiedere un merlot rispetto a un Sagrantino di Montefalco. In termini di tessuto sociale delle aziende, la dimensione delle realtà produttrici non è la stessa. Tendiamo ad essere molto piccoli, per cui anche gli investimenti che possiamo permetterci sul mercato sono abbastanza limitati, rispetto a quello che hanno fatto paesi come l’Australia negli scorsi 7-8 anni e a quello che fa la Francia già da 40 anni”.
Parlando di investimenti, che ruolo hanno i fondi Ocm nella costruzione di un mercato per i vini italiani in Cina?
“I fondi Ocm sono stati – per le esperienze che ho vissuto e gestito in prima persona – sicuramente utili, perché proprio di fronte ai limiti di investimento della singola azienda, forniscono una sorta di ‘polmone’ extra, da cui si possono attingere risorse per fare attività sul mercato. Non si può non notare che negli ultimi anni la complessità burocratica nella gestione dei fondi è aumentata, per cui molto spesso dal punto di vista della pianificazione e della preparazione di alcuni materiali, come ad esempio i giustificativi per garantire l’accesso ai fondi, alcune delle meccaniche sono difficili da fare comprendere agli importatori e questo può causare ritardi e disagi in fase di rendicontazione. È necessario essere molto bravi a mettere tutte le carte in tavola fin dall’inizio per far sì che i piani messi in piedi all’inizio dell’anno vengano rispettati e purtroppo questo, nell’ultimo anno in Cina è stato molto complesso a causa di chiusure e rinvii continui di fiere ed eventi di settore. È stato molto difficile rispettare i calendari e in fase di gestione dei fondi, molti operatori hanno affrontato delle difficoltà”.
Gli importatori richiedono investimenti Ocm per la promozione?
“No, perché hanno molto spesso una conoscenza abbastanza limitata delle meccaniche burocratiche dietro agli Ocm, per cui non mi è mai capitato che l’abbiano chiesto. Le richieste variano di solito in base agli accordi con i vari interlocutori commerciali che abbiamo sul mercato e che si aspettano un contributo importante da parte del brand in base a quelli che sono i risultati che si vogliono conseguire”.
Si ventila la possibilità che i fondi Ocm vengano tagliati, questo che conseguenze potrebbe avere?
“Sicuramente ci sono stati negli anni progetti che, commercialmente parlando, avrebbero fatto fatica a stare in piedi senza i finanziamenti. In qualche caso sono iniziati per poi venire troncati in corso d’opera, quando ci si rendeva conto che non sarebbero stati sostenibili. La funzione dei fondi non dovrebbe ovviamente essere questa, bensì quella di un acceleratore, un booster per progetti che abbiano un senso compiuto sul mercato e che possano effettivamente funzionare, mentre usare i fondi a pioggia – ad esempio, per un produttore che ha pochissime opportunità da un punto di vista commerciale per affrontare la Cina – lascia il tempo che trova. Sono come piccole cattedrali nel deserto che poi crollano quando il supporto viene meno”.
Come vedi i prossimi anni per il mercato cinese?
“Penso che a marzo del prossimo anno si vedrà un passaggio importante, perché finisce il ciclo politico della rielezione dei quadri alti del governo. Non ci dovrebbero essere molte sorprese, i membri del comitato permanente del partito sono tutti molto vicini al presidente appena rieletto, per cui nel quadro di questa stabilità mi auguro che da marzo del 2023 ci possa essere una riapertura graduale, innanzitutto dei confini, in modo che un viaggio per business o per turismo sia un po’ più agevole. Dobbiamo pensare che la Cina è passata da 190 milioni di presenze turistiche nel 2019 a zero. Significa anche un introito molto importante che viene a mancare al paese. E neanche i cinesi hanno più viaggiato. Per quanto riguarda il lungo periodo, si tratta sempre di un miliardo e mezzo di persone e non si può far finta di dimenticarsi di quel mercato. Se non si ha l’opportunità di fare degli investimenti oculati e mirati, è giusto essere comunque preparati, quantomeno a capire che tipo di interlocutore ci si può trovare di fronte”.
Ci sono margini per essere ottimisti?
“Sono cautamente ottimista sull’andamento del mercato. Sicuramente il trend è quello di una piazza che andrà a consolidarsi e a diventare più matura. I produttori italiani devono aver presente che la valutazione dei successi o degli sforzi fatti sul mercato cinese non si fa nel giro di un anno, ma nell’ottica di un investimento minimo di 5-10 anni. È questo l’approccio da adottare. C’è un bellissimo aneddoto che cito sempre per far capire cosa significa visione di lungo termine in Cina. Quando per la prima volta Nixon viaggiò andando a incontrare Mao in Cina nel ‘72, Kissinger lo accompagnò e chiese al premier Zhou Enlai che cosa ne pensasse della rivoluzione francese. La risposta fu scioccante: ‘Probabilmente è ancora un po’ troppo presto per dire quali sono gli effetti della rivoluzione francese sulla nostra società’. La frase rende bene l’idea di quella che può essere la prospettiva da avere per ragionare con una certa cognizione di causa su questo mercato.
Non c’è da stupirsi se chi ha successo in questo momento in Cina sono i francesi: sono ormai 40 anni che seminano. Di conseguenza la percezione di quelli che sono i migliori vini del mondo è molto difficile da cambiare, perché è consolidata ed è ormai insita nella mente del consumatore”.
Chiudiamo con qualche consiglio: una cosa da fare assolutamente e una cosa da evitare assolutamente nell’approcciarsi al mercato cinese.
“Il punto di partenza deve essere che cosa vogliamo fare in Cina. Quali mezzi e quali ambizioni possiamo avere in base alla nostra realtà produttiva, dalla vite alla cantina, fino alle possibilità commerciali e di investimento. Inoltre, per tutti i brand che vogliono costruire un’identità sul mercato cinese sarà importantissimo farlo in cinese. Wechat è una app vitale per i cinesi e può essere un primo viatico per esplorare il mercato, studiare chi è presente con un account ufficiale e come si promuove. Poi costruire eventualmente un proprio account e iniziare a costruire un’immagine. L’aspetto linguistico e culturale sicuramente nei prossimi anni sarà sempre più importante. Anni fa l’ottica era quella di una Cina sempre più internazionale, sempre più aperta e più attenta ad ascoltare ciò che arrivava da fuori. In questo momento il clima politico ci fa capire che probabilmente le correnti stanno cambiando, per cui se si vuole avere successo in Cina si deve essere un po’ più cinesi o comunque ‘sinificati’.
Tra le cose da evitare… ci sarebbe una check list molto lunga. Le aspettative devono essere commisurate a quella che è la realtà attuale del mercato, per cui evitare di fare il passo più lungo della propria gamba e stare molto attenti a ciò che si spedisce in Cina. È proverbiale l’errore di chi parte spedendo un quantitativo eccessivo di vini bianchi, che poi probabilmente rimangono in giro… Mai dimenticare di studiare l’abc, i trend e i prodotti che vanno sul mercato per cercare di proporre un’offerta commerciale che abbia un senso per l’interlocutore cinese”.