Il vermouth, primo aperitivo della storia, fu “inventato” 250 anni fa a Torino dal giovane erborista Carpano. Da Vittorio Emanuele II al cinema fino alle credenze della nonna, un must senza tempo.
C’era una volta un giovane erborista, Antonio Benedetto Carpano, che nella Torino di fine Settecento decise di addizionare del vino locale con erbe e spezie. C’era una volta una bevanda medicamentosa in uso tra gli antichi greci e i romani, che sarebbe diventata il primo aperitivo della storia. C’era una volta un grande autore tedesco. E c’era, infine, una pianta di artemisia.
Fu così che l’aromaticità dolciastra del Moscato di Canelli – come racconta Daniele Becchi su Spirito Autoctono – sembrò perfetta per stemperare l’animo amaricante delle erbe, realizzando una bevanda intensa ma godibile. Iniziarono mesi di infusioni, dove cardamomo, china, coriandolo, rabarbaro e vaniglia entravano e uscivano dal ricettario, cercando di far quadrare un bicchiere che proprio non ne voleva sapere della geometria. Su una cosa però quelle mani non transigevano: l’uso, accanto al Moscato, dell’artemisia, cui oltre al sapore si deve anche il nome della futura bevanda: il vermouth. Sul perché Antonio Benedetto Carpano – a lui appartenevano quelle mani e quella testa impegnate a elaborare – abbia scelto il nome tedesco dell’artemisia (wermut) per identificare la sua creazione ci sono molte teorie. Ma a noi, che in fondo al cuore siamo dei bevitori romantici, piace pensare che sia stata dettata della passione che l’erborista nutriva per gli scritti di Johann Wolfgang von Goethe.

il Grande Libro del Vermouth di Torino
DA VITTORIO EMANUELE III ALLA CERTIFICAZIONE DELLA COMUNITÀ EUROPEA
Fossimo stati dei futuristi lo avremmo potuto chiamare riparacuore, o alla peggio fumosuiricordi. Già, anche gli esponenti di questa vivace corrente culturale di inizio Novecento ebbero da dire la loro sui cocktail, ribattezzati polibibite in onore dello stile autarchico dell’epoca.
Era quella un’epoca nella quale l’umanità cercava insistentemente di allargare i suoi confini, e non c’erano crisi economiche o trincee che frenassero quella voglia di futuro che sorvolò Fiume a fianco del Vate. Erano gli anni del motore a scoppio e delle distanze non così distanti. A beneficiarne (anche) gli scambi mercantili e chi, come Alessandro Martini (scontato incontrare prima o poi questo cognome quando si parla di vermouth), dalla metà dell’Ottocento commerciava vermouth.
Guardando all’aspetto formale della cosa, la prima normazione del vermouth risale a un Regio Decreto del 1933 di Vittorio Emanuele III, che trovò il tempo di firmare il documento che ne dettava le regole di produzione, come gradazione minima, tenore zuccherino, percentuale in volume del vino base e delle sostanze aggiunte.
Molti anni dopo, 1992, fu la Comunità Europea a stabilire nuove regole, nelle more delle quali si riconosceva l’esistenza di un “Vermouth di Torino”.
In definitiva il vermouth – o vermut – è un prodotto composto da almeno il 75% di vino, dolcificato e aromatizzato con un infusione alcolica di varie botaniche, prima tra tutte l’artemisia. Si possono utilizzare uve a bacca bianca o rossa, ancorché straniere (e la pratica è in uso). E i segreti sulla produzione del vermouth si possono leggere su Spirito Autoctono.
La sua gradazione alcolica minima deve essere 14,5%. Ne esistono diverse tipologie, a seconda del diverso grado zuccherino – e relativo tenore alcolico – o più semplicemente del colore. Sia chiaro, la base produttiva è (quasi) sempre un vino bianco giovane, il più neutro possibile, ma grazie all’aggiunta di caramello naturale possiamo averne anche una versione ‘in rosso’.