Viticoltura rigenerativa, dal suolo un nuovo modello di sostenibilità

di Antonio Tosi

Sempre più produttori vinicoli stanno adottando la viticoltura rigenerativa: stop alla chimica in favore del ripristino della salute del suolo e della biodiversità. Così migliorano qualità e quantità.

Viticoltura rigenerativa. Sotto questa definizione si cela non solo un futuro diverso – e possibile – nella coltivazione e nella cura dei vigneti, ma un vero e proprio indirizzo scientifico, che grazie alla ricerca sulle popolazioni di organismi che vivono nel suolo, sta costruendo un insieme di pratiche sostenibili che ribaltano gli ultimi decenni dominati da macchine, chimica e tecniche invasive, per cercare un approccio più in linea con i ritmi e le esigenze delle simbiosi naturali.
Un’agricoltura “buona”, data dal giusto equilibrio tra pratiche tradizionali e tecniche innovative, grazie all’adozione di una serie di accorgimenti in grado di arricchire il terreno, fortificarlo, renderlo autonomo e autoprotettivo.
Un suolo in salute, va da sé, vive più a lungo, dona prodotti in quantità maggiore e di qualità superiore. Ed è più remunerativo.

Un cambio di direzione che sempre più aziende internazionali stanno adottando. Ad esempio, Moët Hennessy, Jackson Family Wines e Torres hanno rilevato già da tempo che per avere un terreno più produttivo vanno aumentate le quantità di carbonio e materia organica trattenute nel suolo: per farlo occorre lavorarlo il meno possibile, così da non depauperarlo di sostanze utili e renderlo meno capace di assorbire e trattenere l’acqua e le sostanze nutritive. Il rischio è di creare forti sbilanciamenti e distruggere quel microbioma che contiene anche batteri e insetti buoni fondamentali per combattere parassiti e malattie delle piante.
Jackson Family Wines ad esempio, si è impegnata a convertire tutti i suoi vigneti alle tecniche rigenerative entro il 2030, Torres si sta muovendo su più di 500 ettari di vigneti biologici, Moët Hennessy sta sperimentando le tecniche rigenerative nella sua proprietà provenzale, Château Galoupet, e nella Champagne, mentre la tenuta argentina del gruppo, Terrazas de Los Andes, ha ottenuto lo status di certificazione biologica rigenerativa insieme a Chandon Argentina.
Nel frattempo, anche Concha y Toro sta sperimentando approcci rigenerativi in Cile.

A dire il vero, una diversa sensibilità era già nata negli anni ‘30 negli Stati Uniti, quando decenni di tecniche agricole inappropriate avevano impoverito e inaridito i suoli a tal punto da generare il fenomeno del cosiddetto Dust Bowl, una serie di tempeste di sabbia che distrussero i terreni vergini nelle Grandi Pianure del Nord America, costringendo decine di migliaia di persone ad abbandonare la terra. E insegnando che “se prendi tutto da un terreno, questo prima o poi verrà spazzato via”.

Oggi, quindi, anche se la linea più seguita è ancora quella della viticoltura convenzionale, con tecniche pervasive che prevedono di arare il terreno rivoltandolo per arearlo ed eliminare erbe infestanti, si sta diffondendo una nuova coscienza che recupera un rapporto conservativo e simbiotico con la natura.

Ma in cosa consiste nel dettaglio la viticoltura rigenerativa? Funziona e si sta effettivamente diffondendo? E se sì, crea valore?
Lo abbiamo chiesto ad alcuni agronomi, che hanno fornito spunti interessanti anche per quanto riguarda le prospettive in Italia.

Per l'agronomo Francesco Monari la viticoltura rigenerativa è una vera e propria filosofia ambientale

l’agronomo Francesco Monari tra le viti della tenuta Argiano

Francesco Monari, agronomo della tenuta Argiano, nel cuore della campagna toscana, considera la viticoltura rigenerativa una vera e propria filosofia ambientale: “non si può definire in modo univoco – spiega – ma si tratta di una serie di pratiche tradizionali che unite a tecniche moderne sono in grado di ripristinare, riequilibrare e arricchire il suolo rendendolo altamente produttivo. Il vigneto va pensato come un sistema complesso di interazioni in cui la diversità conduce all’equilibrio e quest’ultimo alla qualità di un prodotto che sa esprimere la propria identità. L’uso di pesticidi e agenti chimici, soprattutto negli anni ’90, ha progressivamente degradato e rovinato i terreni – prosegue Monari – Noi invece coltiviamo e sfruttiamo anche le micorrize, forti simbiosi tra funghi benefici del terreno e le radici delle viti, distrutti dalla chimica in passato. E facciamo di tutto per non disturbare il naturale popolamento delle nostre vigne da parte di micro e macrofauna.
L’agricoltura rigenerativa poggia su alcuni punti cardine: “consistono – spiega Monari – innanzitutto nel proteggere e favorire la biodiversità dell’ecosistema circostante: maggiore è la biodiversità più un sistema ambientale tende all’equilibrio e quindi alla sua autosostenibilità. Quindi abbandonare la chimica di sintesi e riporre invece fiducia nei processi biochimici naturali: il terreno è pieno di risorse che ci può offrire ma che la chimica di sintesi inibisce. Inoltre è importante non effettuare trattamenti insetticidi così che gli insetti utili arrivino ad insediarsi stabilmente nell’ambiente vigneto. Poi, vedere il suolo non come un substrato ma come una fonte viva di nutrimento: per questo va ricostituita una migliore fertilità generale del terreno, mantenendolo poroso, capace di favorire la vitalità microbiologica del terreno e la dotazione di microelementi. Questo passa anche attraverso gli inerbimenti prolungati, che garantiscono una maggiore ricchezza di specie ben strutturate. Oltre a ciò lo strato di mulch – copertura, nrd – nel sottofilare migliora la porosità di questa parte del vigneto, con una maggiore presenza di radici nello strato superficiale del suolo”.
Queste e altre piccole attenzioni contribuiscono al cosiddetto priming effect: “rende le piante sempre pronte a fornire una risposta ai problemi di diversa natura che si possono presentare, costituendo un concreto aiuto per il viticoltore nel contrastare le cause del cambiamento climatico – spiega l’agronomo -. La ricchezza di specie, il suolo vitale, le radici profonde e forti, le simbiosi con funghi micorrizici, attivando le difese naturali della pianta, ne aumentano il livello di resistenza endogena”.
I risultati secondo Monari sono evidenti: “Per me è il futuro, l’agricoltura deve essere ‘buona’ perché deve arricchire il terreno, fortificarlo, renderlo autonomo, autoprotettivo. Dobbiamo capire che è necessario superare la visione vitigno-centrica del vigneto per proteggere e valorizzare la biodiversità dell’insieme dell’ecosistema viticolo, integrando e facendo convergere le discipline e le conoscenze agronomiche con quelle ecologiche, per sviluppare un nuovo concetto di agro-biodiversità che inglobi le popolazioni dei vitigni coltivati con tutte le specie viventi nel vigneto, siano esse animali o vegetali o microbiche, aggressive o utili, telluriche o aeree. Riuscire ad avere un vigneto in equilibrio significa migliorarne l’omogeneità, che è un importantissimo fattore di qualità”.
Una visione condivisa da un numero sempre maggiore di produttori: “sempre più aziende stanno adottando queste tecniche – rivela Monari -. Bisogna però crederci fermamente, non deve essere solo una scelta etica, bisogna avere pazienza, fidarsi delle piante e della natura. È una vera e propria filosofia che ci insegna ad arricchire il suolo e non a depauperarlo, per ottenere terreni più sani e prodotti ricchi di sostanze nutrienti. Con la viticoltura rigenerativa mettiamo la natura in condizione di lavorare al meglio. Ad oggi si può applicare a qualsiasi tipo di coltura, mentre per l’allevamento, almeno in Italia, c’è ancora strada da percorrere”.
“In ogni caso porta un valore inestimabile – conclude Monari -. Veder crescere la vita nei terreni non ha prezzo: in pochi anni la qualità e la sanità dei nostri prodotti è aumentata moltissimo. Grazie allo studio sui terroir, ogni parcella e ogni tipo di terreno può essere trattato singolarmente, variando il tipo di lavorazione, la sua profondità, il tipo di essenza da seminare e qualunque altra operazione di manodopera. Avere dei prodotti unici, che parlano di terroir, che sono davvero espressione del territorio ha un valore enorme”.

L'azienda Forever Bambù applica invece il metodo rigenerativo simbiotico alle piantagioni di bambù gigante

un bambuseto di Forever Bambù coltivato con il metodo simbiotico

Mauro Lajo agronomo, ad e responsabile produttivo di Forever Bambù (tra le aziende più importanti in Europa per la piantumazione di bambù gigante) rivela invece ulteriori aspetti applicativi delle tecniche rigenerative.
“Noi da quasi dieci anni realizziamo foreste di bambù giganti recuperando terrenti abbandonati o depauperati e ripristinandoli – spiega – Oggi abbiamo 250 ettari in Italia coltivati, di cui 150 destinati a bambù gigante. Da subito abbiamo applicato un tipo di agricoltura in grado di rivitalizzare il terreno, quindi dal 2018 abbiamo implementato il metodo simbiotico, che rientra nell’agricoltura rigenerativa. L’agricoltura simbiotica parte dall’assunto che quella convenzionale depaupera il terreno dalle sostanze nutritive e dal microbioma simbiotico di cui un terreno in salute è provvisto, dalle micorrize ai funghi ai microorganismi”.
“Il metodo simbiotico – prosegue Lajo – dà ottimi risultati: grazie all’inoculo di zeoliti, di consorzi microbici, di induttori di resistenza, si ripristina negli anni l’equilibrio della biodiversità del sottosuolo che garantisce la vita e la salute di piante e animali. Le piante così sono in grado di resistere a stress di diverso tipo e danno prodotti più sani e di qualità superiore, che il consumatore riconosce immediatamente. Il metodo si sta diffondendo: ad esempio il patron di Forever Bambù Sergio Capaldo, che fornisce carni a Eataly, sta riscontrando grande vigoria negli animali che si cibano del fieno ottenuto con tecniche rigenerative. Diversi settori dell’agricoltura stanno avendo inoltre ottimi feedback in termini di qualità, di shelf life prolungata, di resistenza, di contenuti zuccherini particolarmente elevati”.
Il metodo simbiotico, secondo Lajo, si può applicare a tutti i tipi di colture: “naturalmente anche ai vigneti, perché consente di ridurre tutti gli apporti di chimica, idrici, di elaborazione, portando anche a un risparmio economico. Ed è un metodo che produce valore, perché se la terra e la pianta sono sane ci sono molte meno problematiche da gestire”.
Nel caso del bambù, sono interessanti i diversi ambiti applicativi: “Forever Bambù impiega le sue piante in vari modi – spiega l’agronomo -: ad esempio per l’assorbimento della CO2, da cedere tramite upsetting alle aziende che ne fanno richiesta. Un bambuseto assorbe 36 volte la CO2 di un bosco di pianura, si tratta di dati certificati scientificamente. Con l’asportazione delle canne, invece, e parliamo di 100 tonnellate all’anno, produciamo materia prima per il mercato della bioplastica e della bioedilizia, dell’ecopelle, della cellulosa, creando inoltre filiere mai esistite o ripristinando filiere quasi scomparse, come quella del tessuto”.

Per Matthieu Taunay, enologo di Monteverro, cantina di Capalbio, la viticoltura rigenerativa è soprattutto espressione di una modernizzazione di tecniche già esistenti: “è un nuovo nome per qualcosa che esiste già – spiega – Tutti i nuovi termini, tra cui agroforesteria e agroecologia, sono figli dell’agricoltura biologica. Usarne troppi alla fine rischia di creare confusione nei consumatori, perché non si tratta di ambiti separati, ma complementari. Nello specifico, quella rigenerativa è una agricoltura basata sull’importanza della vita biologica dei suoli e sulla biodiversità locale. Per il resto attinge anche i principi dell’agricoltura biologica. Senza saperlo anche noi utilizziamo gli stessi principi: agricoltura biologica, compost, limitazione del lavoro del suolo, cover-crop, piantagione di siepe e alberi. Un lavoro a lungo termine che però dà risultati in termini di equilibrio e resilienza delle piante. Porta valore ed è appicabile a tutti i tipi di agricoltura, ancora meglio quando include la presenza animale in azienda”.

Antonio Noacco, agronomo per l’azienda vitivinicola friulana Zorzettig, affronta l’argomento da un’altra traiettoria, richiamando l’antroposofia del teosofo austriaco Rudolf Steiner: “la viticoltura rigenerativa si differenzia da altri sistemi per il fatto di avere come scopo primario quello di essere rigenerativa per il suolo – sottolinea Noacco – L’approccio, secondo la teoria di Rudolf Steiner, interpreta la natura come un organismo vivente che prevede un equilibrio quale elemento fondante del rapporto tra agricoltura e natura. Una sinergia tra l’ambiente naturale e l’operosità umana che ha lo scopo di ottenere un agro-ecosistema in perfetta armonia e in grado di auto-sostenersi. Di fatto, si incentiva il mantenimento del naturale equilibrio del territorio e pertanto l’effettiva utilità è fuori discussione tanto per l’uomo quanto per la natura stessa. Si tratta però ancora oggi di un’avanguardia, e come tale la sua adozione è ancora limitata a casi piuttosto isolati. Vedremo nel tempo”.
Anche Noacco sottolinea come uno dei vantaggi sia quello dell’applicazione universale di queste tecniche: “l’approccio rigenerativo è applicabile a tutte le attività agricole. Come si diceva, si tratta di re-integrare un equilibrio naturale e per questo, potenzialmente, non conosce limiti. Di più, il sistema è incentivante sia per la qualità del prodotto finale funzionale all’uomo, sia per ridurre l’impatto che l’essere umano ha sull’ambiente. Anche in questo caso, quindi, secondo un sistema circolare. E non solo porta valore, ma nel momento in cui l’uomo riesce a creare un’integrazione tra il suo operato e il naturale equilibrio dell’agro-ecosistema, il valore del prodotto che ne deriva coincide con il valore del territorio stesso. Il prodotto diventa quindi rappresentante del territorio e della sua autenticità. A beneficiarne è la natura tanto quanto il produttore, che si interfaccia con colture più sane e resistenti nel tempo, meno soggette a stress climatici e malattie, e con un prodotto di qualità superiore”.

l’azienda vitivinicola friulana Zorzettig affronta l’argomento da un’altra traiettoria, richiamando l’antroposofia del teosofo austriaco Rudolf Steiner

i vigneti dell’azienda Zorzettig in Friuli

L’agronomo Gherardo Biancofiore si occupa invece nello specifico proprio di agricoltura organica e rigenerativa: “la viticoltura rigenerativa, proprio come l’agricoltura in senso ampio, è un modello di produzione agroecologico basato sull’approccio sistemico, ovvero sull’utilizzo dei principi dell’ecologia per la progettazione e gestione dell’agroecosistema, e quindi anche dell’ecosistema vigneto – spiega – Al centro della visione rigenerativa sta la cura della salute del suolo, che intende la sua capacità di funzionare come un sistema vitale, raggiungibile attraverso l’utilizzo di pratiche che aumentino la fertilità globale dei suoli (chimica, fisica, biologica), soprattutto attraverso il ripristino e l’accumulo di carbonio organico all’interno di questi. Tra le pratiche troviamo l’utilizzo di mezzi tecnici come colture di copertura (cover crops) o inerbimento naturale, l’applicazione di ammendanti (compost, letame, ecc.), l’utilizzo di preparati microbiologici per la biostimolazione e induzione di resistenza delle piante, sistemi agroforestali e introduzione del pascolo all’interno del vigneto. La viticoltura rigenerativa, inoltre, porta in sinergia con l’aspetto suolo anche l’aumento della biodiversità, il riciclo e ri-uso degli ‘scarti’ e matrici interne all’azienda o al territorio, chiudendo il più possibile il ciclo dei nutrienti; e infine le relazioni umane, attraverso la co-creazione della conoscenza, l’unione di pratiche tradizionali e innovative e la collaborazione dei diversi attori del mondo agricolo, quindi viticolo”.
I risultati positivi sono sotto gli occhi di tutti per Biancofiore: “ci sono ormai numerosissime evidenze empiriche e scientifiche – dice -. Diminuzione o eliminazione dei fenomeni erosivi, visto che la viticoltura è la prima coltura per perdita di suolo per erosione, miglioramento della nutrizione delle piante e della resistenza a stress biotici e abiotici, miglioramento della qualità delle uve e dei vini. L’aumento della microbiologia dei suoli enfatizza il fenomeno terroir, infatti sono i microrganismi del suolo i veri protagonisti dell’espressione del territorio, sia nel suolo sia al di fuori di questo. I microrganismi aiutano e migliorano l’estrazione della componente minerale dalla matrice originaria. Inoltre l’aumento della biodiversità e l’inserimento della componente arborea migliora la quantità e qualità di lieviti indigeni all’interno del vigneto”.
Diversamente da Antonio Noacco, Biancofiore sostiene la diffusione ormai globale dei processi rigenerativi: “l’applicazione è ormai estesa a ogni livello, dallo strettamente agricolo all’accademico o di ricerca, visto che è applicabile a ogni tipo di coltura e allevamento. Molto diffusa in ambito rigenerativo, così come in agroecologia, è inoltre la ricerca partecipata. Nello specifico, si sta diffondendo sempre più l’agroforestazione applicata al vigneto, detta vitiforestry, con l’obiettivo di adattamento ai cambiamenti climatici, tramite la modifica del microclima, il riciclo di nutrienti sotterranei da parte degli alberi, l’accumulo di carbonio nel suolo e la creazione di una fitta rete di simbiosi radicale”.
Indubbio per Biancofiore il valore che deriva da questo approccio, che si applica anche in viticoltura rigenerativa: “porta un valore aggiunto per un prodotto di qualità, per la cura del territorio, per la crescita e la formazione delle aziende agricole. Porta un aumento della sostenibilità a 360 gradi, ambientale, economica e sociale”.

Riccardo Tedeschi, enologo della Tedeschi Wines in Valpolicella, sottolinea come l’azienda abbia già adottato da anni nei vigneti l’inerbimento naturale, sperimentando il sovescio con essenze a taglio basso per evitare lo sfalcio nel sottofila ed essenze che arricchiscono o impoveriscono di azoto il terreno a seconda della necessità.
“Il rapporto alto carbonio/azoto nel terreno da decenni è il nostro obbiettivo come la biodiversità del terreno e dell’ambiente circostante – spiega Tedeschi -. Stiamo anche sperimentando una pacciamatura con lo scopo di mantenere e, quando possibile, aumentare la vitalità del terreno e innalzare il rapporto carbonio/azoto, cercando così di agevolare in tal modo la vitalità delle viti e la reazione di autodifesa alle malattie del legno. Da anni ci siamo certificati Biodiversity friend, cercando di aumentare il valore della biodiversità nel tempo, cosa che ci è valsa la certificazione di sostenibilità secondo il protocollo Equalitas”.

L'azienda sarda La Contralta segue da tempo i dettami della viticoltura rigenerativa

vini dell’azienda sarda La Contralta

Anche Roberto Gariup, direttore ed enologo dell’azienda sarda La Contralta, mette l’accento sul concetto di simbiosi per spiegare i principi dell’approccio rigenerativo: “la viticultura rigenerativa – racconta – è una pratica culturale nata in California che ha come obiettivi principali la salvaguardia del suolo e delle risorse idriche e la minor emissione di CO2 nell’atmosfera tramite la pratica dell’inerbimento. Con la viticoltura rigenerativa bisogna pensare al vigneto come parte di un ambiente più complesso, un agrosistema dove la vite vive in simbiosi con altre piante e insetti”.
Una filosofia che per certi versi viene già seguita a La Contralta: “noi già lavoriamo i terreni al minimo facendo attenzione soprattutto a non portare lo strato superficiale fertile in profondità ma lasciandolo in superficie per non depauperare la parte organica e preservare i microrganismi in essa presenti, che sono utilissimi per il benessere delle piante – spiega Gariup – Tanto più che qui in Gallura domina il terreno di disfacimento granitico: se il suolo non viene lavorato per nulla diventa duro come il cemento. A La Contralta inoltre inerbiamo il suolo in maniera quasi permanente, otto, dieci mesi su dodici. Questo aiuta a mantenere i terreni più freschi, aumenta la sostanza organica, aiuta ad avere minor dilavamento ed erosione superficiale in caso di acquazzoni e permette di immagazzinare CO2 nel suolo anziché disperderla. Ci serviamo inoltre di insetti predatori o insetti utili alla biodiversità attraverso lanci mirati durante la stagione primaverile ed estiva. Anche se non ortodosso, questo è già un approccio di viticoltura rigenerativa adattata ai nostri suoli e ai nostri climi. E il tutto senza l’uso di pesticidi e diserbi”.
“Secondo noi è una pratica che funziona – sottolinea Gariup – In futuro bisognerà avere un approccio di questo tipo in agricoltura, soprattutto nel settore del vino, che è un bene voluttuario. Bisogna pensare di ‘bere pulito’, con prodotti piacevoli, sani e che contribuiscano alla salvaguardia del pianeta. Sono comunque pratiche agronomiche che hanno dei costi soprattutto in termini di resa di produzione. Soprattutto in annate difficili come le ultime. Perciò dobbiamo chiederci: il mercato è in grado di capire lo sforzo fatto dal vignaiolo o dall’agricoltore? Il consumatore è disposto a pagare qualche euro in più per un prodotto lavorato secondo questi principi? Il Nord Europa sicuramente ha già abbracciato questa cultura. In altri mercati c’è ancora molto da fare”.

Consigliati